Una legge che dia forza vincolante ai contratti di lavoro, che già contengono i minimi salariali, per risolvere, appunto, il rebus del salario minimo; un meccanismo che sostenga la previdenza del precariato giovanile; un robusto potenziamento degli ispettori del lavoro contro abusivismo, infortuni e lavoro-nero. Sono alcune delle linee guida - quasi un programma - che Tiziano Treu indica al futuro governo, qualunque esso sia, sui temi che lo vedono da decenni tra i massimi esperti europei e che il CNEL - che presiede e con la sua gestione ha rimesso al centro del dibattito economico e illustra a Economy magazine nel numero di settembre.
di Sergio Luciano
«È solo l'Italia - esordisce in quest'intervista a Economy - che non ha ancora risolto il tema del salario minimo, lo sto constatando nell'aggiornare il mio manuale di diritto europeo del lavoro. Secondo me non ci sono motivi per non volere una legge ad hoc. Ma funzionerebbe anche la proposta dell'Unione europea, che è quella di usare la strada contrattuale per risolvere la questione».
Domanda: Cioè?
Risposta: Cioè usare i contratti collettivi per garantire, attraverso di essi, il rispetto dei minimi. Ma attenzione: non sarebbe un fenomeno automatico, bisogna prima fare in modo che i contratti collettivi - non solo quello dei metalmeccanici ma anche quelli meno negoziati, come ristorazione, logistica, pulizie eccetera - garantiscano livelli decenti. Il ministro Orlando, anche sulla base di ricerca di un gruppo coordinati da Andrea Garnero, ha fatto sua la proposta di dare valore erga omnes ai minimi salariali dei contratti, ma se i contratti restano quali sono oggi, cioè in sostanza accordi privatistici, continueranno a subire l'altissima evasione che subiscono. E gli ispettori - pochissimi in un Paese con 4 milioni di imprese - non riescono a imporne l'adozione. Quindi ci vuole una legge che istituisca decreti capaci di dare efficacia vincolante ai minimi contrattuali e introduca controlli stringenti per contrastarne l'evasione.
D. Nella campagna elettorale in corso si dibatte anche molto di Reddito di cittadinanza. Qual è la sua visione?
R. lo valuto il reddito di cittadinanza come un istituto giusto da migliorare, correggendone i difetti.
D. Quali sono questi difetti?
R. È sperequato perché dà troppo ai single e alle famiglie numerose senza riuscire a distinguere adeguatamente da caso a caso e così assecondando le possibili applicazioni speculative; ha dato adito a troppi abusi, che sono un insulto ai veri bisognosi; e soprattutto bisogna distinguere tra il reddito di cittadinanza vero e proprio, che è uno strumento di lotta alla povertà, e le politiche attive del lavoro, che sono due cose diverse, in tutti i Paesi.
D. In che modo?
R. Molti dei percettori del reddito, tra il 30 e il 40%, semplicemente non sono occupabili: o perché malandati nella salute o perché analfabeti e comunque fuori dal mercato da troppo tempo. Sono soggetti che vanno aiutati col reddito di cittadinanza e anche, spesso, presi in carico dall'assistenza sociale, magari nel quadro dei servizi di prossimità potenziati dal PNRR. Coloro che invece non hanno questo genere di problemi particolari vanno trattati con le politiche attive del lavoro, per indirizzare loro offerte serie, formarli e ricollocarli. Questa seconda categoria di percettori non ha però ancora ricevuto questi servizi. Come mai? Non perché non funzioni il Reddito di cittadinanza, bensì perché non funzionano le politiche attive del lavoro. Consideri che nei nostri Centri per l'impiego ancora oggi abbiamo solo novemila impiegati contro i 104 mila della Germania e i 50 mila della Francia. Ora nel bilancio pubblico le risorse per colmare questo gap sono state inserite ma non è facile agire, i servizi per l'impiego sono un mestiere che non si improvvisa. A questo si aggiunge che la materia è competenza regionale e dunque alcune regioni, come le solite Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna e forse il Lazio, si sono almeno attivate; altre no, o molto meno. Se in Francia si vuol sapere quanti posti liberi di viticultore ci sono a Bordeaux si può interrogare un'unica banca dati nazionale; da noi abbiamo banche dati regionali che funzionano in modo difforme e non dialogano. Ma questo, ripeto, non c’entra col Reddito. I soldi ci sono ma il mestiere di trovare un lavoro al prossimo non s'improvvisa, è difficile fare servizi all'impiego.
D. Sta di fatto, presidente, che il Paese ha ancora un tasso di disoccupazione molto alto, soprattutto giovanile, ma poi non si trova manodopera specializzata e neanche generica come i camerieri o i fattorini. Come si spiega?
R. C'è un insieme di spiegazioni. Abbiamo sempre avuto una percentuale bassa di occupazione e dato poca attenzione alla creazione dei posti di lavoro. Adesso col PNRR si creeranno tante opportunità nella sanità e nel green, ma non ci sono offerte adeguate di lavoratori preparati. Nei settori dei servizi siamo da sempre a corto. Poi abbiamo un tasso di nero o semi-nero altissimo, come il part-time dichiarato per coprire lavori full-time, una deformazione diffusissima. Quanto ai Neet nascono innanzitutto dal nostro altissimo tasso di dispersione scolastica e poi dal mismatch tra ciò che si insegna nelle scuole e ciò che il mercato chiede. Quindi molti non studiano e molti altri studiano cose inutili. C'è anche l'over-qualification, cioè la sovrabbondanza di lauree inutili e, dall'altro lato, la lentezza del sistema imprenditoriale nel capire che le competenze occorrono e vanno pagate. Quindi ci sarà probabilmente un minor senso del lavoro come dovere, tra i giovani: ma è anche comprensibile che molti di essi, finché le famiglie li aiutano e finché riescono farsi bastare i frutti di qualche lavoretto saltuario per le spese personali, anziché sbattersi in una pizzeria o in una officina a 800 euro al mese preferiscano starsene a casa
D. Dai giovani agli anziani. A fine anno scade La Legge Fornero sulle pensioni. Che fare?
R. Non si sa cosa succederà, tutto dipenderà dal nuovo governo e dai tempi della sua formazione. Dopo il voto bisognerà fare la legge di bilancio al gran galoppo e quindi anche tecnicamente sarà difficile far qualcosa sul tema entro l'anno. Posso dire cosa immaginavo a suo tempo. L'ultima volta che Draghi ha parlato del tema con le parti sociali è emersa un'indicazione a mio avviso corretta: che cioè si potevano anche alzare le soglie ma la cosa fondamentale per non continuare ad andare avanti a singhiozzo era riprendere il filo logico del metodo contributivo. È ormai una tendenza che accomuna tutti i Paesi sviluppati. La tendenza è dire: il metodo contributivo si adatta alla speranza di vita, con soglie non rigide, con una fascia ad esempio tra 63-64 anni e fino ai 70, e a seconda delle caratteristiche e dei bisogni personali e dei tipi di lavoro, e si adegua ciascun trattamento al momento dell'inizio della quiescenza per intestare assegni inferiori a chi si pensiona prima e ha quindi più attesa di vita. Qualcuno sostiene che invece bisogna mantenere soglie rigide. In questo caso si potrebbe confermare una forma di Ape Sociale per alcune fasce specifiche. L'altro punto essenziale è, nella nuova riforma, istituire qualche strumento che costituisca uno zoccolo di garanzia previdenziale per i giovani precari che hanno una posizione discontinua, con carriere piene di buchi e il rischio di pensioni molto basse. Questo sarebbe lo schema ragionevole da seguire: ma tutto dipenderà da chi governerà.
D. Non crede che il ruolo dei sindacati sia oggi particolarmente sbiadito?
R. È una crisi non solo italiana. Hanno tanti iscritti pensionati, o over-50. E pochissimi giovani, che non conoscono e non cercano il sindacato.