Gian Paolo Gualaccini
Consigliere CNEL
Carla Amantea
Tirocinante CNEL
Per i detenuti l’accesso a un’occupazione lavorativa può significare un miglioramento delle proprie condizioni di vita nel corso della reclusione.
Il lavoro penitenziario, affinché sia effettivamente riabilitante, deve impegnare il detenuto in un’attività di tipo produttivo - quindi professionalizzante - che garantisca al lavoratore la possibilità di procurarsi un reddito “ordinario”.
Il numero di coloro che usufruiscono attualmente di un posto di lavoro rimane estremamente basso e le attività lavorative sono svolte perlopiù alle dipendenze della stessa Amministrazione penitenziaria, consistendo in occupazioni poco o affatto qualificanti, sfavorevolmente remunerate e distribuite a rotazione ad un ampio bacino di detenuti.
L'art. 15 della l. 354/1975 - Ordinamento penitenziario (di seguito O.P.), individua il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato e all'internato è assicurata un'occupazione lavorativa.
È essenziale comprendere che il lavoro svolto da condannati o internati non è (e non può essere) né obbligatorio, trattandosi di un’attività fondata sulla libera adesione, né afflittivo, avendo una funzione di risocializzazione tesa a favorire l’acquisizione di una formazione professionale adeguata al mercato. Ad oggi, le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa da parte delle persone in stato di detenzione sono definite dall’art 20 dell’O.P. – come riformato dai D.Lgs 123 e 124 del 2018.
Sorge pertanto, l’esigenza di operare una distinzione tipologica all’interno dell’ampio genus del lavoro carcerario.
L’attività lavorativa dei detenuti può svolgersi sia alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, sia alle dipendenze di soggetti esterni, quali cooperative ed imprese. Qualora il detenuto lavori alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria è essenziale distinguere tra lavoro di tipo domestico, industriale o agricolo.
È altresì opportuno osservare che le difficoltà dell’Amministrazione penitenziaria nell’organizzazione di lavorazioni di tipo produttivo all’interno degli istituti sono a tutt’oggi presenti, come si evince da un’analisi dei dati forniti periodicamente dal Ministero della giustizia.
Il DPR 230/2000 (“Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario”) ha introdotto la possibilità per imprese e cooperative sociali di avvalersi di manodopera detenuta e di organizzare e gestire le officine e i laboratori all’interno degli istituti (cd. L. Smuraglia).
Le cooperative hanno maturato esperienze e competenze molto specifiche nei rapporti con le istituzioni del Carcere, in luoghi in cui, inevitabilmente, le necessità imprenditoriali devono sottostare a regole di sicurezza, nonché a tempistiche proprie di lavoratori in stato di detenzione.
Di fatto, l’esperienza cooperativistica fece il suo ingresso nella dimensione carceraria attraverso la creazione (nella metà degli anni ’60) della prima società cooperativa a responsabilità limitata composta anche da soci detenuti.
La disciplina delle cooperative sociali è regolamentata dalla L. 381 del 1991, definendo come sociali le cooperative che perseguono “l’interesse generale della collettività alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini”, mediante — per quel che qui interessa — lo svolgimento di attività produttive volte all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate”.
Ulteriore e differente modalità di inquadramento dell’attività lavorativa da parte di detenuti e internati è la figura tipologica del lavoro carcerario a domicilio, introdotta attraverso l’entrata in vigore della legge n. 354 del 1975, ad opera della legge n. 56 del 1987 (“Norme sull'organizzazione del mercato del lavoro”).
Trattandosi di una particolare fattispecie di lavoro subordinato, connotata della realizzazione delle attività presso locali nella disponibilità dell’Amministrazione penitenziaria, ben si presta alle peculiari esigenze di soggetti detenuti, i quali diversamente incontrerebbero numerosi limiti in ordine a permessi/tempistiche e criterio di economicità tra interessi privati e disponibilità del singolo lavoratore.
Ben si comprende - anche grazie alle evidenze restituite dai dati - che la finalità rieducativa della pena è ancora un obiettivo sostanzialmente in divenire.
Il 30% del totale dei detenuti svolge un lavoro interno alla struttura di detenzione, lavoro che si limita ad attività di supporto alla regolare funzione dell’amministrazione penitenziaria (percentuale stabile dal 1992); inoltre, di questo 30%, solo il 4% (ossia circa 2400 detenuti) lavorano attivamente presso strutture del privato sociale non profit o imprese, dentro e fuori dal carcere.
Malgrado quanto detto, occorre prendere atto di una constatazione: il dato normativo, dunque la finalità rieducativa della pena - come Costituzionalmente prevista dall’art. 27 co.3 Cost. - non coincide con la realtà.
Anche la lettura delle statistiche inerenti alla c.d. recidiva assume un ruolo essenziale al fine di operare una corretta valutazione in ordine ad un’effettiva rieducazione, volta al reinserimento nella società civile.
Difatti, la recidiva per i detenuti non lavoratori si aggira intorno al 70%, differentemente da quanto avviene invece con coloro che in carcere hanno appreso un lavoro, per i quali la recidiva scende drasticamente intorno al 2%.
I dati sin qui richiamati sono stati presentati al CNEL durante il convegno “Le dimensioni della dignità nel lavoro carcerario”, svoltosi nel dicembre 2022, all’esito del quale è stato sancito un patto fra l’Amministrazione penitenziaria, il terzo settore e il privato profit, con l’obiettivo di incentivare la funzione rieducativa della pena carceraria, avvicinando il mercato del lavoro al mondo degli istituti di pena.
*L’articolo è tratto dall’ultimo numero del Notiziario sul mercato del lavoro e la contrattazione 1.2023 del CNEL