19 Settembre 2024
Il Sole 24 Ore
La svolta su dialogo sociale e responsabilità collettiva
Di Renato Brunetta e Michele Tiraboschi
L’atteso intervento del Presidente Orsini, alla sua prima relazione alla Assemblea annuale di Confindustria, consegna, a chi si occupa istituzionalmente dei delicati intrecci tra l'economia e il lavoro, due messaggi che non possono essere lasciati cadere. Da un lato, una convinta difesa della autonomia della rappresentanza. Non è, infatti, scontato difendere, dopo un decennio di fibrillazioni politiche e di fratture nel mondo sindacale, «il principio che il salario si stabilisca nei contratti, nazionali e aziendali, trattando con il sindacato». Dall'altro lato, un invito pragmatico a costruire relazioni industriali di qualità dal basso. Un invito al sindacato - ma indirettamente anche alla classe politica - per mettere in campo una vera «azione comune per contrastare i troppi contratti siglati da soggetti di inadeguata rappresentanza»; un impegno a «unire le forze per indicare una via diversa ai troppi settori in cui convivono salari incongrui e irregolarità fiscali e contributive».
A due mesi dalla data di scadenza della direttiva europea sui salari minimi, le parole di Orsini si collocano nella direzione di una risposta seria e istituzionale alle grandi questioni che il Governo dovrà affrontare nei prossimi mesi. La risposta emerge da quella direttiva europea che privilegia, sui temi retributivi, la via maestra della contrattazione collettiva a condizione, però, che si tratti di una contrattazione genuina, da attori realmente rappresentativi di imprese e lavoratori. Questo al punto di sollecitare gli Stati membri a varare un vero e proprio piano nazionale di azione a sostegno della contrattazione collettiva. Soluzione questa, ancorché non obbligatoria, particolarmente utile, in un Paese, quale il nostro, che già presenta un alto tasso di copertura della contrattazione nazionale e di estrema duttilità e adattabilità a beneficio dei lavoratori temporanei e dei settori deboli e ancora poco presidiati dalla rappresentanza - pensiamo al settore socioassistenziale e al lavoro di cura -.
È del tutto evidente che la contrattazione collettiva resta l'unica strada virtuosa e sostenibile, perché la contrattazione collettiva pone la questione salariale partendo dal verso giusto: la produttività, «sinonimo di ricchezza del Paese». Come mai potremo realisticamente pensare di attuare, senza il necessario contributo delle parti sociali e della contrattazione collettiva, i preziosi suggerimenti contenuti nel recente rapporto di Mario Draghi sul futuro della competitività europea, là dove esorta all'avvio di un piano straordinario su competenze, fabbisogni professionali e mobilità del lavoro? Chi scrive - potendosi avvalere dell'osservatorio privilegiato offerto dal Cnel- può confermare che la contrattazione collettiva di qualità già oggi, fatta eccezione per pochi settori con caratteristiche del tutto peculiari (in primis il lavoro domestico), prevede nelle sue qualifiche contrattuali retribuzioni ben più elevate del salario minimo per legge di cui si parla. Le relazioni industriali in Italia sono ancora vitali e pienamente capaci, grazie al contributo silenzioso e paziente di quella "gente della mediazione" che nelle nostre istituzioni e nella nostra società contribuisce in modo decisivo alla coesione sociale e alla crescita. Quello che forse ancora manca è una visione d'insieme, un piano di azione appunto, e con essa un posizionamento nobile delle stesse istituzioni che si occupano di economia e lavoro, pronte a sostenere attori sociali che vogliano guardare, con coraggio e senso di responsabilità, al futuro. Più produttività, più crescita, più diritti, più benessere.