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01.05.2024 - Il Sole 24 Ore

1° MAGGIO 2024


- Il Sole 24 Ore


Incentivare lavoro e studio nelle carceri, uno strumento di diritto e dignità


di Renato Brunetta


La festa del Primo Maggio ha una lunga tradizione di cui, però, abbiamo perso progressivamente la natura originaria e simbolica: diritti, lotte, dignità, solidarietà. Ma oggi possiamo considerarlo un giorno di festa? 
Quando la nostra Costituzione afferma che l’Italia è fondata sul lavoro, ne sottolinea il primato della persona nella propria  dimensione sociale e relazionale: la persona e, dunque, anche la comunità nella quale si relaziona.


Come Presidente del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro il mio pensiero e il mio ringraziamento va, pertanto, a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori nella ricorrenza di una festa, quella del lavoro, che dovrebbe essere “celebrata” tutti i giorni; in un Paese ricco, avanzato, con record occupazionali, ma anche troppe volte ingiusto, con il lavoro ancora per tanti fonte di precarietà, insicurezza, sofferenza, incidenti e  morte. Proprio per questo oggi vorrei parlare di una particolare categoria di persone: i detenuti, quando è consentito loro il ‘’privilegio’’ di lavorare dietro le sbarre. A loro il CNEL ha voluto dedicare, nella sua nuova consiliatura, un impegno particolare, affinché il lavoro diventi, soprattutto per loro, occasione di riscatto e di effettiva reintegrazione nella società. Superando le difficoltà di ordine normativo e pratico che si frappongono alle tantissime attività di realtà - istituzionali, imprenditoriali, solidaristiche - , il cui generoso impegno non si traduce in risultati proporzionati allo sforzo. Per colpa un po’ di tutti. Finisce per prevalere lo stigma, il pregiudizio, la miopia, l’autismo relazionale delle istituzioni coinvolte, il mettere la polvere sotto il tappeto.


Come ebbe modo di dire Primo Levi in una intervista rilasciata all’Unità in occasione del Primo Maggio di 40 anni fa “Noi siamo evolutivamente fatti per lavorare. L'ozio forzato è duro tanto quanto il lavoro forzato”.
In queste parole possiamo cogliere non solo le ragioni di una grande ingiustizia sociale, che ci porta a misurare la civiltà della nostra società per come trattiamo gli ultimi, ma anche la grande questione del lavoro per l’uomo dei giorni nostri. Perché una “festa” del lavoro ha senso quando il lavoro è svolto in condizioni dignitose e sicure, quando ci sono le premesse per poter amare il proprio lavoro, per trovare in esso gratificazione, soddisfazione, realizzazione e crescita, perché il lavoro è “luogo” di vita e di relazioni generative. E’ il contrario di quanto avviene ancora troppo spesso nelle nostre carceri, dove l’assenza del diritto al lavoro o la sua riduzione a mero meccanismo strumentale della detenzione, ne costituisce la sua esatta negazione, trasformando le carceri da luoghi di rieducazione a “fabbriche” del dolore e del crimine. Perché è nella attenzione alle persone, partendo dagli ultimi e dai più vulnerabili, che il CNEL, quale rappresentanza di imprese e lavoratori, sublima sé stesso,  esaltandone la sua essenziale funzione di collante delle complesse e fragili società moderne. 


Nelle carceri ce lo insegnano le ancora troppo poche esperienze di “lavoro vero”, quelle forme di lavoro ben fatto che, anche se sviluppate in ambienti ristretti, sono importanti occasioni di vita, di conoscenza di sé e di riscatto e che, non a caso, riducono drasticamente i casi di recidiva. 
Purtroppo la situazione del lavoro dei detenuti presenta, oggi, rilevanti criticità e elevate disparità che ne limitano il potenziale trasformativo e reintegrativo, a partire dalla normativa stessa, che prevede diverse forme di lavoro e di retribuzione per i detenuti. Può essere che servano nuove leggi e nuove riflessioni, e anche su questo fronte il CNEL farà la sua parte, assieme al Ministero della Giustizia, con il quale sta lavorando da dieci mesi per realizzare ciò che più di tutto manca: uno sforzo congiunto e coordinato di tutti i numerosi soggetti, direttamente o indirettamente coinvolti, per mettere a regime le buone prassi esistenti e creare un vero e proprio “mercato del lavoro” nelle carceri del nostro Paese.  Fondamentali sono la collaborazione strutturale con il mondo delle imprese e del terzo settore, con le sue oltre 800 comunità di accoglienza - dalle realtà più piccole a quelle note - quali la Comunità di Sant'Egidio e San Patrignano; ma anche un rinnovato protagonismo della Pubblica Amministrazione e di tutte le Agenzie per il lavoro, pubbliche e private.


La nostra visione è mettere a sistema tutte le reti virtuose esistenti, con una governance adeguata che assicuri  nodi e interconnessioni sistemiche di natura tematica, territoriale, produttiva, divenendo hub di riferimento a livello nazionale, territoriale, locale e di prossimità. Vogliamo realizzare veri e propri poli di inclusione lavorativa di detenuti ed ex detenuti, nei quali ricondurre la gestione operativa degli accordi e dei protocolli di intesa sin qui siglati, la definizione di programmi e di corsi di formazione professionale con regioni, province e comuni.
Vogliamo creare punti unici di accesso per le imprese che vogliano usufruire dei benefici e delle agevolazioni previsti, per incentivare e promuovere la programmazione  di investimenti produttivi nei siti carcerari.
Istruzione, formazione e lavoro, dunque, come via di uscita che non riguarda solo i 61 mila oggi detenuti, ma tutti coloro che usufruiscono delle misure alternative al carcere, e quanti sono in attesa dell’esecuzione della pena. Un totale di poco meno di 300 mila persone, il cui apporto in termini di capitale umano resta “sospeso”, con conseguenze negative non solo per la società, a causa dell’alto tasso di recidiva, ma per la nostra stessa economia e che, viceversa, attraverso l’applicazione effettiva del dettato costituzionale risparmia dolore e violenza, divenendo investimento a beneficio di tutti.


La prima sfida è quella dei 5.980 detenuti che attendono di essere messi in libertà entro un anno, e per i quali è necessario acquisire quanto prima il background  e le aspirazioni professionali e analizzarli per incrociare le opportunità di lavoro con l’offerta formativa, in modo da programmare le opportunità concrete di inserimento lavorativo, al termine della pena. Il volano per realizzare tutto questo è il “digitale”, in tutte le sue declinazioni. Vogliamo attivare la condizione di base che permette di formarsi e di lavorare: la digitalizzazione, creando le infrastrutture o potenziando quelle già esistenti. Partendo dalla cablatura sicura di tutte le strutture vogliamo la creazione in tutti gli istituti di almeno  un'aula informatica dotata di tutte le attrezzature necessarie per poter studiare qualsiasi disciplina e ottenere ogni titolo di studio. Naturalmente lo faremo garantendo tutti gli standard di sicurezza e di accesso che dobbiamo rispettare, dato il particolare contesto.
Abbiamo raccolto i dati sulla situazione delle singole carceri per capire dove avviare la cablatura e la realizzazione delle aule informatiche da zero, o dove migliorare o ampliare quello che già c'è, come nel caso dei servizi di call center da estendere a tutti gli istituti di pena. I fondi per partire ci sono. Altri verranno dal PNRR e da fondi europei e regionali. Contiamo anche molto sulla solidarietà concreta delle grandi aziende partecipate dallo Stato e di quelle tecnologiche e delle telecomunicazioni, delle fondazioni bancarie. 


Le infrastrutture digitali sono l'autostrada per l'offerta formativa sulla quale far studiare i carcerati, per far conseguire loro un titolo di studio o per imparare una nuova professione. A tal proposito, ed è il secondo motivo che rende fondamentale il digitale, acquisire le competenze delle professioni digitali è decisivo per il presente e per il futuro. Vi sono esperienze già in atto alle quali possiamo ispirarci. È il caso di Cisco, che in venti anni di attività ha coinvolto 1.500 persone detenute che sono riuscite a ottenere la certificazione di base, e 50 quella avanzata. Lavorano tutti, il risultato è recidiva pari a zero. Lo stesso sta facendo, da quasi cinque anni Linkem/Tiscali, a partire dalla riparazione dei router e i risultati in termini di recidiva sono gli stessi. Digital360 ha unito alla formazione specifica un percorso di formazione imprenditoriale, formando una cooperativa di detenuti che ora opera nel mercato della produzione di contenuti video per il digitale. Se questo uso solidale della tecnologia, se queste esperienze fossero presenti in tutte le carceri e anche negli istituti minorili, non solo potremmo recuperare alla vita migliaia di persone, ma daremmo anche un forte contributo a ridurre lo skill shortage, la carenza di competenze digitali, che affligge tante aziende in Italia. La classica situazione win-win. 

 
In definitiva, vogliamo considerare il carcere alla stregua di una “infrastruttura materiale e immateriale”, che contiene al proprio interno un capitale umano di cui si conosce solo in parte l’effettiva dimensione e qualità.
Un luogo, quindi, nel quale il lavoro e il diritto al lavoro siano concretamente praticati. Per questo abbiamo concepito il Segretariato presso il CNEL per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private di libertà personale, con il quale monitorare, progettare, diffondere un modello in grado di offrire le migliori opportunità a tutte e tutti, dentro e fuori dal carcere. Questo è il modo più corretto di applicare la Costituzione, rispondendo appieno alla finalità rieducativa sancita dall’art. 27. 


Il nostro lavoro è appena iniziato e l’orizzonte del nostro impegno è di lunga durata, ma siamo determinati nell’impegno affinché, come ha indicato Papa Francesco nella sua recente visita alle detenute della Giudecca, nella mia Venezia, il carcere possa “diventare un luogo di rinascita morale e materiale, in cui la dignità di donne e uomini non è messa in isolamento, ma promossa attraverso il rispetto reciproco e la cura di talenti e capacità”. Per vincere tutti insieme. Viva il primo maggio.


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