21 febbraio 2025
Il Sole 24 Ore
L'Europa deve rilanciarsi nel contesto globale e l'Italia può dare la prima mossa
di Renato Brunetta
“L'Europa si è forgiata nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per quelle crisi”. Alzi la mano chi non ha letto almeno una volta questa citazione di Jean Monnet. Sono, invece, in pochi a conoscere che molte delle soluzioni proposte durante momenti difficili per la costruzione dell’Unione Europea sono effettivamente originate dall’Italia. Si può ricordare il Consiglio europeo di Roma dell’1 e 2 dicembre 1975, che sancì l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo. E ancora, l’Atto Unico Europeo scaturito dalla riunione conclusiva del semestre italiano di Presidenza UE, svoltosi a Milano il 28 e il 29 giugno 1985. Sempre a Roma, il vertice dei Capi di Stato del 14 e 15 dicembre 1990 pose le basi per la firma del Trattato di Maastricht, avvenuta il 7 febbraio 1992. Il 29 ottobre 2004, la Capitale ospitò la firma del Trattato e dell’Atto finale che istituiva una Costituzione per l’Europa. Infine, il 25 marzo 2017, i leader dei 27 sottoscrissero la “Dichiarazione di Roma”, celebrando il 60° anniversario dei Trattati e rinnovando la fiducia nel progetto di un’Unione “indivisa e indivisibile”.
Ancora una volta, è dall’Italia – o meglio, da due autorevoli italiani – che possono arrivare soluzioni per affrontare una delle crisi più drammatiche che l’Unione sta attraversando. Mario Draghi, con il suo piano di investimenti da 800 miliardi l’anno, ed Enrico Letta, con il suo rapporto sul rafforzamento del mercato unico, sottolineano la necessità di una razionalizzazione per eliminare inefficienze e regolamentarlo in modo più efficace. Una crisi che affonda le sue radici in una delle più profonde e radicali trasformazioni delle relazioni internazionali, accelerata dall’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Una trasformazione che richiede non solo una prontezza mai sperimentata nell’ambito delle politiche dell’Unione europea, ma anche la costruzione di una proposta non limitata a un mero aumento della spesa – nazionale o comunitaria – per la difesa. Quello che serve in questo momento è sì rafforzare la sicurezza dei propri cittadini, ma in un quadro più ampio di rilancio dell’economia europea e della sua posizione geostrategica. Pace, protezione e prosperità sono le tre “P” su cui è stata costruita l’Unione e sono i tre cardini che, ancora oggi, devono improntare tutte le iniziative e le politiche che si dovranno realizzare.
Le principali sfide da affrontare riguardano il gap tecnologico fra Unione europea e Stati Uniti e Cina, l’equilibrio fra la traiettoria della transizione ecologica delineata dal Green New Deal e la crescita della competitività europea e il rafforzamento della sicurezza geopolitica attraverso il superamento delle dipendenze. Il filo rosso e la prospettiva, come dicevamo, sono quelli a cui guardano i due Rapporti di Mario Draghi e di Enrico Letta, nonché l’Agenda strategica europea dal 2024 al 2029, che comprende, ma non solo, una riformulazione della Strategia industriale europea in grado di superare i limiti esistenti e rendere l’Unione capace di rispondere alle sfide poste dal nuovo scenario mondiale.
A partire dalla capacità di innovare.
Per rafforzare la posizione europea nel settore della sicurezza e della difesa e favorire una crescita competitiva, è infatti essenziale investire in ricerca e innovazione. In questo contesto, l’Europa dispone di diversi asset strategici su cui puntare per accelerare lo sviluppo di una capacità autonoma e avanzata: le startup europee mostrano grande vitalità e creatività, come dimostra il successo del Fondo per l’Innovazione della NATO, con 1 miliardo di euro di investimenti per sostenere la tecnologia della difesa. Il rapporto pubblicato da Dealroom.com e il NATO Innovation Fund evidenziano un anno record di investimenti nel settore, confermando il ruolo centrale delle startup nella sicurezza e resilienza europea. L’Europa dispone di un’ampia rete di università, centri di ricerca e poli tecnologici, infrastrutture strategiche essenziali. Un’azione mirata di investimento potrebbe potenziare l’innovazione mobilitando più ricercatori.
Il conflitto russo-ucraino e gli ingenti investimenti governativi in droni, cybersecurity e intelligenza artificiale hanno ridefinito il settore della difesa, aumentando gli investimenti. La Banca Europea per gli Investimenti ha adeguato i criteri di finanziamento, eliminando il vincolo di ricavi da applicazioni civili per le aziende di tecnologia dual-use. Tradizionalmente lenta nell’adozione di nuove tecnologie, la difesa ha visto un’accelerazione grazie alla guerra in Ucraina, che ha favorito un cambio di paradigma negli appalti e permesso alle startup di operare con maggiore agilità. Nonostante risorse limitate, l’Ucraina ha rapidamente sviluppato soluzioni avanzate, come un sistema virtuale di comando e controllo a basso costo.
È di qualche giorno fa la proposta di Maria Chiara Carrozza, Presidente del CNR, e Giorgio Parisi, Premio Nobel per la Fisica, di utilizzare il “format” del CERN di Ginevra per valorizzare l’immenso patrimonio europeo di competenze e ridurre la dipendenza tecnologica e strategica, garantendo una maggiore sicurezza e un ruolo attivo nel nuovo ordine geopolitico globale e Cina. Il “modello CERN” potrebbe essere utilizzato su settori chiave come l'intelligenza artificiale, la space economy, i droni, la robotica, i materiali avanzati e la cybersecurity.
Ma la sola disponibilità di conoscenze e competenze non basta a colmare il divario tecnologico tra Europa, Stati Uniti e Cina. Servono investimenti di centinaia di miliardi di euro l’anno per molti anni. Per la transizione verde e digitale, ad esempio, si stima un fabbisogno di circa 750 miliardi l’anno fino al 2030, una sfida che l’Unione Europea fatica ad affrontare a causa della limitata capacità di spesa pubblica e di processi decisionali lenti, vincolati al consenso di tutti i 27 Stati membri. Una lentezza non compatibile con un mondo che sta evolvendo velocemente, con nuovi equilibri che si vengono definendo che richiedono tempestività e determinazione nelle azioni. Sulla questione dell'aumento delle risorse per finanziare le nuove sfide europee, finalmente anche la Commissione Europea ha preso ufficialmente atto, nella Comunicazione sul nuovo bilancio UE dello scorso 11 febbraio, che "L'Europa deve far quadrare il cerchio: non può esserci un bilancio UE adatto alle nostre ambizioni e in particolare che garantisca il rimborso di NextGenerationEU e, allo stesso tempo, contributi finanziari nazionali stabili senza introdurre nuove risorse proprie. Bisogna fare delle scelte". Scelte che non possono che andare verso una accelerazione della messa in comune delle risorse, in termini di debito ed entrate proprie.
Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 14 febbraio, la Presidente della Commissione europea Von der Leyen ha proposto di attivare la clausola di salvaguardia generale all’interno del quadro delle regole fiscali europee, per escludere dal perimetro delle regole gli investimenti nella difesa. E ciò per consentire all’Europa di arrivare a una spesa in difesa pari al 2,5-3% del PIL. Un’apertura senza dubbio importante, ma insufficiente.
In primo luogo, perché rimette agli Stati membri le scelte di investimento, rispetto alle quali l’Unione non ha poteri incisivi di indirizzo e coordinamento, con il rischio di perpetuare una delle maggiori vulnerabilità nell'economia europea, come paventato da Draghi “I nostri sistemi di difesa nazionali non sono né interoperabili né standardizzati in alcune parti chiave della catena di fornitura. Questo è uno dei tanti esempi in cui l'Ue è inferiore alla somma delle parti".
In secondo luogo, in assenza di misure di bilancio europee compensative, il finanziamento delle spese per il tramite dei debiti pubblici nazionali, benché escluso dal conteggio del deficit, creerebbe ulteriori tensioni sulle finanze dei Paesi tradizionalmente ad alto debito pubblico (fra i quali l’Italia, ma anche Francia e Spagna), ponendosi in contraddizione con gli obiettivi di consolidamento fiscale a lungo termine richiesti dal nuovo Patto di Stabilità e Crescita. Lasciare quindi ai singoli stati l’onere di finanziare la spesa di questi settori è improponibile.
Da ultimo, ma non per importanza, perché un solo intervento sulla difesa, attuato a livello nazionale o europeo, è insufficiente a far fronte alle necessità di crescita, rafforzamento geopolitico e sicurezza di cui il nostro continente ha bisogno. Per questo l’Europa deve rilanciare, mettendo in campo una potenza di fuoco non comune. Come ha fatto nelle precedenti crisi, tenendo a mente che questa più delle altre rischia di mettere in discussione l’intera costruzione europea. Su questo punto, occorrerebbe che facessero una seria riflessione i Paesi Nordici, ma non solo, tradizionalmente più refrattari all’utilizzo di strumenti comuni per il finanziamento degli investimenti e favorevoli alle politiche d’austerity che per decenni hanno imprigionato la UE in una situazione di sottoutilizzo delle proprie risorse. Così come la Germania dovrebbe riflettere sulle proprie scelte, causa della attuale pesante recessione dalla quale il paese non riesce a venir fuori, a partire dalla decisione di legarsi mani e piedi alle risorse energetiche della Russia o orientare il proprio mercato di vendita dei propri prodotti a est.
Per questo è necessario un piano articolato di politica economica e industriale dotato di risorse pari almeno al 5% del PIL europeo (circa 1.000 miliardi di euro). Un piano che non solo sostenga gli investimenti necessari per realizzare una vera autonomia strategica, ma che mobiliti risorse e idee per farne un campione mondiale nelle tecnologie di avanguardia, cruciali per garantire difesa e sicurezza, ma anche benessere e progresso ai propri cittadini. Una ottima sintesi dei piani Draghi e Letta. In questo contesto, è positivo il recente impegno della Commissione europea ad incrementare gli investimenti annuali in energia, industria e trasporti di circa 480 miliardi di euro rispetto al decennio precedente, basandosi sul 38% del bilancio Ue, come previsto dal Clean industrial deal.
Come abbiamo visto, un tale piano va finanziato con un mix di strumenti, all’interno dei quali può collocarsi l’attivazione della clausola di salvaguardia per la difesa, collegata però a un piano di investimenti europeo, anziché prevedere dei regimi di semplici scorpori delle spese dai bilanci nazionali, una soluzione che lascerebbe ai singoli stati membri l’onere dell’investimento, generando, tra le altre cose, una pericolosa asimmetria che avvantaggerebbe i paesi meno indebitati e creerebbe quindi dei conflitti interni. Da sostenere, invece, un programma di finanziamento basato su meccanismi di condizionalità premiale, riforme e investimenti, risultati e obiettivi misurabili, sul modello del NGEU. Ma anche l’utilizzo della capacità finanziaria inutilizzata all'interno di NGEU, pari a circa 90 miliardi di euro, o la creazione di una facility ad hoc per finanziare il piano europeo, basata sul modello del Recovery and Resilience Facility, con strumenti di debito europeo che i grandi investitori internazionali hanno già dimostrato di apprezzare. Un approccio analogo dovrà guidare il prossimo Quadro Finanziario Pluriennale 2028-2034, che dovrà essere più flessibile e semplice rispetto al passato, per consentire all’Europa di attivare rapidamente le leve finanziarie in base alle esigenze emergenti.
Un siffatto piano “hamiltoniano” finalizzato alla crescita e alla sicurezza avrebbe naturalmente il consenso necessario. Spiazzando ogni deriva opportunista a livello nazionale.
L’Unione europea ha tutte le carte sul tavolo. Serve però qualcuno che faccia partire subito il gioco.
L’Italia può farlo.