27 novembre 2024
Il Sole 24 Ore
Serve una nuova stagione delle relazioni di lavoro e di responsabilità sociale
Di Renato Brunetta e Michele Tiraboschi
A pochi giorni dallo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil, nonostante la decisa contrarietà della Cisl, torna forte tra analisti e addetti ai lavori un interrogativo su funzione e attualità di un movimento sindacale che, a fasi alterne, fatica a muoversi in modo unitario. Se poi la questione di fondo non riguarda semplicemente le diverse visioni delle tre principali confederazioni su cosa significhi essere sindacato oggi, ma piuttosto la perdita del potere d'acquisto di lavoratori e famiglie negli ultimi trent'anni, allora il problema appare ancora più grave.
A testimonianza di ciò, mentre i salari sono aumentati in tutti i principali paesi europei, l'Italia rappresenta l'unica eccezione, con una stagnazione che ha pesato sull'intero sistema economico e sociale. La questione salariale c'è ed è grave, ma è piuttosto stupefacente l'assenza generalizzata di autocritica da parte di tutti gli attori sociali. La stagnazione dei salari italiani è iniziata, infatti, dopo gli accordi del 1992 e del 1993 (i Protocolli Amato e Ciampi), quando la moderazione salariale che serviva alle imprese per tornare a competere in un'economia sempre più globalizzata e, ancor più, occorreva allo Stato italiano per entrare nella moneta unica, fu scambiata con l'invito permanente dei sindacati nella "stanza dei bottoni" di Palazzo Chigi, sotto forma di concertazione. Nel 1997, solo quattro anni dopo, la Commissione per la verifica del Protocollo del 23 luglio 1993, presieduta da Gino Giugni, evidenziò senza equivoci i rischi connessi alla acritica riproposizione delle soluzioni immaginate all'inizio del decennio in un contesto, però, radicalmente mutato: «L'importanza di accordi concertativi come il Protocollo è notevole ai fini del raggiungimento di obiettivi di carattere macroeconomico, senza che si vengano a creare condizioni di disagio o di conflittualità sociale. (...) Tuttavia, in una situazione di bassa inflazione e di impossibilità di manovre sul cambio ci si interroga sulla validità attuale di questo modello di politica dei redditi, sulla sua sostenibilità nel medio periodo». Il nodo più delicato da sciogliere fu individuato, già allora, nella scarsa diffusione e qualità della contrattazione aziendale: «Viene unanimemente riconosciuto che questo assetto contrattuale ha conseguito, in larga misura, gli obiettivi che si era prefisso in termini macroeconomici. (...).
La contrattazione decentrata (aziendale o territoriale) che doveva accrescere la variabilità della retribuzione, concorrendo così ad una maggiore flessibilità del sistema, è stata quantitativamente e qualitativamente insufficiente ed insoddisfacente». Si tratta dunque di una responsabilità collettiva: i Governi, le associazioni datoriali e gli stessi sindacati negli anni hanno tutti largamente ignorato quanto era già stato compreso oltre 25 anni prima. Alla politica, d'altra parte, conveniva contenere il conflitto sociale attraverso la reiterazione di rituali concertativi sempre più logori e meno efficaci, in un quadro domestico che stava delegando le politiche monetarie alle istituzioni europee; per le imprese i salari contenuti erano fattore di competitività a livello internazionale, senza comprendere l'indebolimento del capitale umano determinato dall'uniformità delle retribuzioni, slegata da qualsiasi indicatore di produttività (non a caso, proprio in quegli anni, ha iniziato a manifestarsi quella "fuga dei cervelli" che, da allora, non si è più riusciti a frenare). Infine, per una parte del sindacato, lo stesso che oggi incita alla rivolta sociale, andava affermandosi quell'egualitarismo sempre teorizzato. Ecco, dunque, che la moderazione salariale, inizialmente simbolo di responsabilità e coraggio sociale nel periodo compreso tra l'accordo di San Valentino e il Protocollo Ciampi, nel decennio successivo si trasformò in una zavorra, diventando un problema tanto micro quanto macroeconomico, che ancora oggi rimane irrisolto.
Per Eurostat la copertura dei Ccnl italiani è (o quasi) del 100%, quindi il salario dipende ancora, in larga parte, dalla contrattazione. Ebbene, come è possibile dare la colpa solo al Governo di turno se il potere di acquisto dei lavoratori non è stato garantito in tutti gli ultimi decenni? Chi non ha voluto la diffusione della contrattazione aziendale suggerita nel Protocollo del 1993 e continua, ancora oggi, a opporsi a pratiche partecipative che favorirebbero una redistribuzione della ricchezza laddove è prodotta, dovrebbe riflettere sui limiti di un sistema di contrattazione ormai anacronistico. Tale sistema, nel tentativo di garantire un equilibrio uniforme a livello territoriale, finisce per appiattire i livelli salariali medi e mediani. Di fronte a interrogativi così impegnativi e a crescenti segnali di turbolenza che non lasciano presagire nulla di buono (dallo stallo nel rinnovo del contratto dei metalmeccanici, alle intese separate di nuova generazione, iniziate nel pubblico impiego e proseguite con Poste e il protocollo sugli scioperi per il Giubileo) il rischio di cedere al pessimismo è elevato. Si potrebbe facilmente richiamare il pensiero usato da Ezio Tarantelli, nel suo celebre studio del 1978 sulla funzione economica del sindacato, quando parlava senza mezzi termini dello "sfascio" del nostro sistema di relazioni industriali. Chi ha a cuore le sorti del nostro Paese, strettamente legate alle dinamiche della economia e del lavoro, non può non sottolineare con forza i rischi di un muro contro muro a tutto campo. Attaccare il rispettivo interlocutore, degradato a nemico pubblico, non serve a nessuno e contribuisce solo a delegittimare ulteriormente politica e istituzioni. Inutile, quindi, condannare come "stanco rito" uno sciopero generale che è, se mai, espressione di un diritto di rango costituzionale e una risposta istituzionalmente corretta, tra le diverse possibili, per canalizzare quel disagio sociale di cui si fa portavoce una parte del sindacato. Allo stesso tempo, però, è bene riconoscere che il conflitto non può mai essere fine a sé stesso, salvo non coltivare più o meno consapevolmente, in una situazione oggi ben più degradata di quella di trent'anni fa, un disegno di sostanziale marginalizzazione dei corpi intermedi che, al pari della politica, hanno parte delle responsabilità se non riescono più a indirizzare, in modo condiviso, processi economici e sociali di elevata complessità, anche perché sempre più condizionati da fattori esterni ai confini nazionali.
Collocare il confronto dentro una prospettiva almeno europea sarebbe, dunque, il primo passo da compiere. Un secondo passo, rispetto al quale ci sentiamo chiamati in prima persona a fornire un contributo concreto, è quello di separare, per quanto possibile, l'analisi tecnica dei problemi da quella più propriamente politica, relativa alla individuazione delle possibili soluzioni. Ricordiamo con forza la funzione di un organo di rilevanza istituzionale come il Consiglio Nazionale della Economia e del Lavoro chiamato dalla "Legge Mattarella" del 1986 a predisporre analisi e sintesi "politiche" sugli andamenti generali, settoriali e locali del mercato del lavoro, nonché sugli assetti normativi e retributivi espressi dalla contrattazione collettiva, con l'obiettivo di offrire un esame terzo e critico dei dati disponibili e delle loro fonti e, con ciò, agevolare l'elaborazione di risultati univoci e condivisi sui singoli fenomeni. Questo lavoro il Cnel lo ha fatto sul salario minimo, ed è disponibile a continuare a farlo, in particolare in un panorama di informazioni parziali o di parte sul mercato del lavoro che disorientano l'opinione pubblica, e di enorme rilievo istituzionale per chi voglia leggere, con spirito propositivo, le grandi trasformazioni che attraversano l'economia, che è poi l'unica strada per difendere, in modo responsabile, gli interessi dei soggetti di cui si assume la rappresentanza. Perché i dati che può offrire un osservatorio istituzionale come il Cnel confermano sì che c'è in Italia un problema di bassi salari, ma che questo va spiegato e affrontato focalizzando l'attenzione anche sulle cause (e non solo sugli effetti), e cioè partendo dai nodi storici dalla bassa produttività, dalla scarsa attitudine alla innovazione sociale, che si è rilevata inesistente, dalla debole integrazione tra sistema formativo e mercato del lavoro, dalla polarizzazione del mercato del lavoro che sempre di più differenzia l'occupazione nei settori ad alto valore aggiunto, da quelli in ambiti pure fondamentali nella nostra economia quale il commercio, la ristorazione e il turismo. La verità da raccontare agli italiani è che i salari si possono e si devono aumentare, ma che questo è realistico soltanto incrementando la produttività ed evitando che il valore aggiunto sia trasferito altrove.
Più investimenti, più produttività, più salari, più crescita: questa è la ricetta vincente. In particolare, agendo sul consolidamento del terziario avanzato, "motore" dello sviluppo delle moderne economie, che nel nostro Paese risulta ancora frammentato e poco integrato con il manifatturiero, che invece ben si difende nei confronti del resto del mondo. Il problema e la possibile soluzione della questione salariale sono, dunque, in larghissima parte nelle mani degli attori del nostro sistema di relazioni industriali e non certo della sola politica. Che, semmai, dovrebbe sviluppare una seria riflessione sui condizionamenti non sempre positivi creati dalle misure di incentivazione della contrattazione di produttività e del welfare aziendale che sono, oggi, prive di attendibili sistemi istituzionali di monitoraggio e valutazione.
Lo stesso Ezio Tarantelli, in una lezione purtroppo dimenticata, ricordava che le relazioni industriali sono un sistema sociale e istituzionale e non un semplice meccanismo di fissazione delle retribuzioni. Il volerle ridurre a un mero sistema di regolamentazione del salario, denuncia «una comprensione solo parcellare di un sistema sociopolitico ben più complesso». Chi crede nel protagonismo dei corpi intermedi, e cioè nella necessità di coniugare e comporre in termini politici l'"economico col sociale", deve ripartire da questa riflessione, già il giorno dopo lo sciopero generale, e contribuire a fare chiarezza sulla bassa crescita della nostra economia, sulle conseguenti reali dinamiche del mercato del lavoro e dei salari, in un Paese che vive una fase di profonda trasformazione a livello demografico, tecnologico e ambientale. Serve, dunque, una nuova stagione di relazioni di lavoro e di responsabilità politica e sociale, in una prospettiva davvero europea!