di Renato Brunetta
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, afferma solennemente l’articolo 1 della nostra Costituzione. Ciclicamente, nel nostro Paese – tantopiù in
questo momento drammatico in cui il cuore della Nazione non può che essere accanto alle popolazioni colpite dalle alluvioni -, torniamo a domandarci se abbiamo davvero
adempiuto appieno a questo precetto; se abbiamo cioè davvero costruito le pareti della nostra dimora repubblicana e democratica sul fondamento del lavoro, che tradotto
significa il diritto di ogni cittadino a un lavoro conforme alla sua dignità, non sia cioè negato o ridotto alla maledizione dello sfruttamento e della alienazione.
Lo ha fatto recentemente, con la sua autorevolezza, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, parlando con i lavoratori del distretto della meccatronica a Reggio
Emila, in occasione della “Festa del lavoro” del Primo Maggio. E lo ha fatto anche col suo carisma Papa Francesco, nel suo intervento agli Stati Generali della Natalità
della scorsa settimana, ricordandoci che la difficoltà a trovare un lavoro stabile e la difficoltà a mantenerlo, come il problema dello sfruttamento del lavoro e della
disuguaglianza crescente, sono problemi reali.
Un invito potente e doveroso alla riflessione, che sollecita risposte concrete da parte della politica e delle istituzioni, ma anche comportamenti coerenti da parte di
ognuno di noi, perché riguarda un tema – o, meglio, un problema – che tocca la carne viva delle persone e anche quella doverosa ricerca della felicità che rende la vita
degna di essere vissuta. Un invito che con la sua concretezza ci ricorda di evitare quella retorica insidiosa delle cerimonie ufficiali sul lavoro di cui parlava Primo
Levi, cinicamente fondata sulla considerazione che un elogio o una medaglia costano molto meno di un aumento di paga e rendono di più. Ma è stato lo stesso Levi ad
ammonirci che sui temi e i problemi del lavoro esiste da sempre anche una sfilata di parole d’opposto segno, forse non cinica ma profondamente ottusa, che tende a
denigrarlo come antitesi del tempo libero e bello, a dipingerlo vile o inutile, come se del lavoro, proprio e altrui, si potesse fare a meno.
Guardandoci indietro, in questo 20 maggio del 2023, possiamo allora certamente dire che qualcosa di grande e che ha cambiato radicalmente in meglio il mondo del lavoro
lo abbiamo fatto. Oggi è infatti la ricorrenza della legge 300 del 1970, nota come “Statuto dei diritti dei lavoratori” con cui effettivamente, per la prima volta,
la Carta costituzionale con la forza del vincolo normativo entrava nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. Non come atto formale e simbolico, ma nella concretezza
della quotidianità dei rapporti di lavoro per milioni di lavoratori. Questa “carta dei diritti lavoro” ha potuto essere formulata e trovare legittimità sociale perché
ha percorso il sentiero dei diritti tracciato da un decennio di conquiste sindacali nelle grandi fabbriche, estendendolo anche a quanti non erano dipendenti di colossi
industriali. Questa contaminazione fruttuosa, positiva e incontrovertibile, quasi un passaggio del testimone tra conquiste sindacali e legislazione sociale – senza
entrare nel merito delle complesse questioni e dei tecnicismi di politica economica e del lavoro – ci porta oggi a guardare con rispetto la mobilitazione sindacale di
Napoli indetta per rilanciare la questione della centralità lavoro nel nostro Paese.
Lo sappiamo bene, ne portiamo ancora le ferite. Il tema del lavoro è stato ed è anche terreno di conflitti e divisioni, e talvolta di profonde lacerazioni che hanno
bloccato e rischiano, ancora oggi, di frenare il processo di modernizzazione e di crescita del sistema-Italia. Per questo ritengo sia giusto e necessario far memoria
di come il 20 maggio non sia solo un giorno di festa. Questa data infatti coincide non solo con l’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970, ma con l’assassinio,
nel 1999, di Massimo D’Antona. Un professore universitario che insegnava ai suoi studenti le ragioni del diritto del lavoro e dei valori di una Repubblica democratica,
fondata sul lavoro in tutte le sue forme e applicazioni. Un servitore dello Stato ucciso barbaramente, in coerenza con la loro folle ideologia, dalle Brigate Rosse perché
uomo della mediazione. Quella mediazione che è l’anima del riformismo. Quel riformismo che solo consente, con un pragmatismo appassionato all’ideale ma lontano da ogni
illusoria utopia, di concorrere giorno dopo giorno ad una ecologia umana del lavoro, rendendolo, si direbbe con parole scaltrite e politicamente corrette,
“più sostenibile”, e io direi, con linguaggio meno post-moderno, semplicemente più giusto, dando risposte effettive e non cartacee alle puntuali e concrete
sollecitazioni del Presidente della Repubblica e del Papa.
Risposte che devono evidentemente fare i conti con la transizione digitale ed ecologica, che se da un lato può aumentare crescita e produttività del nostro sistema
economico, dall’altro lato può generare esiti ancora poco prevedibili in termini di impatto occupazionale per intere filiere e settori produttivi. A questi temi si
aggiungono inoltre gli effetti dell’inverno demografico, che crea frizioni importanti sul mercato del lavoro e non rassicura rispetto alla tenuta del nostro sistema
di welfare. Eppure tutte queste sfide devono essere risolte se vogliamo garantire una efficiente allocazione del lavoro attraverso i diversi strati della società e
le diverse capacità individuali, con un corretto incrocio tra le competenze del lavoratore e i requisiti del posto di lavoro.
Torna dunque alla ribalta la sede apposita che la nostra lungimirante Carta costituzionale, con l’art. 99, ha previsto proprio per la mediazione sui temi economici e
del lavoro, ossia il Consiglio Nazionale della Economia e del Lavoro. Al CNEL spetta il compito di dare voce, secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge,
alle categorie produttive e contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale. Con l’imminente avvio della nuova consiliatura, proprio per fuggire
dalla pomposità insidiosa delle celebrazioni ufficiali, ci impegneremo con determinazione e passione per rispondere alle sollecitazioni del Presidente del Consiglio
dei ministri Giorgia Meloni che ha indicato il CNEL come luogo di confronto e concertazione tra le parti sociali sul tema del lavoro.
È qui, attraverso il dialogo e la mediazione, che proveremo a dirimere temi centrali per la crescita economica e sociale del nostro Paese, a partire da un sistema di
remunerazione che premi anche l’efficienza individuale, oltre che quella collettiva, insieme a una redistribuzione non conflittuale del valore aggiunto derivante
dall’attività economica tra lavoratori e produttori. Porteremo avanti queste discussioni consapevoli del fatto che in questa fase di profondi cambiamenti il contributo
delle parti sociali all’azione di politica economica è oggi un elemento centrale a sostegno della produttività totale del sistema, che è la chiave per la crescita e
la coesione di una società nel lungo periodo.
Quello del lavoro (del buon lavoro!) è tra i temi più urgenti per il Paese – come quello della manutenzione del nostro fragile territorio – e deve essere centrale nelle
politiche di ripresa post pandemica e di costruzione dell’Italia che vogliamo lasciare ai nostri figli. Ricordarlo in questa data, il 20 maggio, nella sua doppia ma
connessa simbologia, lo Statuto dei lavoratori e il martirio del professor D’Antona, dev’essere una occasione preziosa per un bilancio su quanto di buono fin qui è
stato fatto ma anche sulla distanza che ci separa dall’adempimento del precetto solennemente esposto dopo la prima virgola dell’articolo 1 della Costituzione:
“L’Italia…, fondata sul lavoro”. Dopo “lavoro” c’è il punto. Punto e a capo. Non si scappa. La direzione di marcia è chiara e ce la ricordava Giacomo Brodolini che,
con Gino Giugni, è il padre dello Statuto dei diritti dei lavoratori: “Da una parte sola, dalla parte dei lavoratori”-