di Renato Brunetta
C’entra la rivoluzione digitale, la transizione ambientale, la sfida demografica e anche la grande partita dei salari. In Italia, c’è una rinascita in corso che può
cambiare le coordinate del paese. Indagine su una rivoluzione silenziosa
La scomparsa del sociologo francese Alain Touraine, il primo intellettuale a parlare di società post-industriale, ci ricorda che l'epoca delle transizioni è iniziata
oramai da molti decenni. Una lunga traversata nel deserto - caratterizzata da fasi di recessione economica, guerre, catastrofi naturali e pandemie - che ancora non
consente di intravedere un nuovo ordine economico e sociale. In tempi recenti le transizioni sono diventate sicuramente più veloci e radicali, ma quello che più di
tutto manca è un metodo che ci consenta di immaginare e costruire concretamente il nuovo mondo. Lo ha detto bene Giuseppe De Rita: la crisi che stiamo vivendo oggi
è sociale, non economica. È ragionevole pensare che questo sia dovuto anche alla crisi e alla progressiva marginalizzazione dei corpi intermedi, e non solo per i ritardi
che questi attori hanno manifestato nel comprendere le trasformazioni in atto. È da qui che dobbiamo ripartire per guardare con fiducia al futuro.
Pensiamo solo alla questione salariale, così importante per la vita di milioni di lavoratori e per la competitività delle nostre imprese, e che tuttavia anima da più
di un decennio un dibattito politico e sindacale sterile, perché incapace di trovare soluzioni condivise e sostenibili. Il cuore del problema, riprendendo l'indimenticata
e ancora attuale lezione di Ezio Tarantelli, non può essere la fissazione di una tariffa retributiva sganciata dalla realtà, quanto la riattivazione di un ben più
complesso e prezioso sistema di relazioni industriali, capace di portare a sintesi "politica" le istanze economiche e quelle sociali. E questo è possibile solo
collegando in modo virtuoso e non parcellizzato le dinamiche complessive della domanda e della offerta di lavoro. Perché i salari, tutti i salari, crescono solo
se qualcuno - nelle aziende e nei diversi settori produttivi - si fa carico di ancorarli saldamente alla produttività, alla innovazione tecnologica, alla formazione
e riqualificazione dei lavoratori, al rilancio dei fondi interprofessionali per la formazione continua, e al funzionamento di quelle politiche attive del lavoro che
sono la funzione più alta dei corpi intermedi (e non dell'attore pubblico) nei moderni mercati transizionali del lavoro.
La verità è che oggi siamo nel cuore di un rinnovamento radicale che attraversa allo stesso modo l'economia e la società, sostituendo vecchi paradigmi e trasferendo
nuove responsabilità. Le rivoluzioni digitale e ambientale sono le due coordinate cartesiane. Ma una terza dimensione, quella demografica, le interseca allo stesso
modo, e impone di fare i conti con una decrescita e un invecchiamento della popolazione che, ai ritmi attuali, in trent'anni toglierà otto milioni di italiani in età
occupabile dal mercato.
Processi di questa portata hanno inevitabilmente profonde conseguenze sull'organizzazione della società. Si ha ormai ampia evidenza di un processo di polarizzazione,
tra chi da queste transizioni trae benefici, e chi invece le subisce. Si avverte il rischio di un conflitto destinato non tanto a frenare il cambiamento, quanto a
lasciarlo senza guida politica. Se ne colgono i segni in due atteggiamenti, che conquistano consenso nell'opinione pubblica. Il primo riguarda la crescente tecnofobia
rispetto all'applicazione dell'intelligenza artificiale ai processi produttivi. Aumenta la paura che i computer e gli algoritmi, sostituendo l'uomo in molte abilità,
ne certifichino il superamento, o peggio, l'inutilità. Il secondo, invece, impatta sulla sfida ecologica con due opposte declinazioni. Da una parte c'è chi disconosce
la realtà del surriscaldamento climatico e della perdita della biodiversità. Dall'altra chi pensa che il problema ecologico sia talmente grande che qualunque misura
sia insufficiente ad affrontarlo. Questa sfiducia si associa a un ambientalismo radicale, per cui l'unica transizione possibile è quella in grado di scatenare una
rivolta contro il "capitalismo neoliberista", considerato la causa di tutti i mali.
Questi atteggiamenti, a ben vedere, sono in realtà diverse declinazioni del neoluddismo che da sempre accompagna le grandi accelerazioni della tecnica. Per questo
servono politiche mirate per analizzare gli impatti che tali fenomeni hanno su tutti i processi produttivi, evidenziare e ammortizzare i costi sociali del cambiamento,
tutelare i più fragili. Per fare tutto ciò occorre trasferire responsabilità dal livello centrale al livello territoriale, ossia all'interno delle realtà produttive
dove i processi di transizione impattano in via prioritaria. Questo perché l'articolazione del sistema politico oggi si nutre di semplicità e immediatezza della
comunicazione ai fini della creazione del consenso, ma tali elementi mal si conciliano con la complessità dei cambiamenti in atto, che giocoforza necessitano di
tempi lunghi di analisi, di discussione delle opzioni disponibili, e della ponderazione delle conseguenze che le decisioni comportano.
Ne consegue che i veri protagonisti della trasformazione sono i corpi intermedi della società veri e propri mediatori e punto di congiunzione insostituibile tra i
singoli cittadini e lo Stato. Protagonisti perché inevitabili destinatari delle transizioni, in quanto il lavoro è il crocevia delle tre grandi transizioni: digitale,
climatico-ambientale, demografica. E protagonisti in quanto decisori a un livello più efficiente delle azioni necessarie a gestire tali transizioni. Se cedono alla
polarizzazione del dibattito politico e civile, se si arroccano in una resistenza diffidente, se pensano unicamente di lucrare in una logica particolaristica,
le società contemporanee - e forse il mondo intero - avranno perso una occasione di sviluppo e insieme una scialuppa di salvataggio.
Diventa fondamentale allora il rinnovamento del sistema di relazioni industriali e della contrattazione collettiva, secondo quella dimensione più partecipativa e meno
conflittuale già sancita col protocollo Ciampi - Giugni del 1993, di cui ricorrono i trent'anni in questi giorni. Ma questo non basta. Ai corpi intermedi per
rivitalizzarsi servono, tanto a livello centrale che nelle periferie, luoghi istituzionali e spazi pubblici dove riflettere, individuare e condividere le policy,
le riforme e la formazione delle transizioni, coinvolgendo tutte le categorie del lavoro e della società protagoniste nei processi in atto. In una stagione di
populismo e di spinto individualismo è tempo di una rinnovata responsabilità da parte di chi sa e può lavorare per il bene comune, contribuendo non solo alla
costruzione di una visione del futuro che vogliamo ma anche alla attuazione concreta di questa visione nella società, nei settori economici, nelle comunità,
nei nuovi luoghi del lavoro. La priorità è ricostruire con pazienza quella rete di relazioni e quelle sedi istituzionali che danno forma e sostanza a quei
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale di cui parla la nostra Carta costituzionale.
C'è del resto una questione che l'ideologia della transizione ignora e il realismo impone: le emissioni europee sono in continuo e sostenuto calo per effetto
delle politiche europee già intraprese e dell'enorme progresso tecnologico nel campo delle rinnovabili e dell'efficienza energetica. Alcune delle policy che
hanno prodotto questi sviluppi sono state ben calibrate, altre sono costose e inefficienti. Ma in ogni caso fin qui l'Europa ha perseguito il disallineamento
dello sviluppo dal fabbisogno energetico: vuol dire continuare a crescere, consumando di meno. È una grande responsabilità considerando che nel 2050 sulla terra
vivranno due miliardi di persone in più. Per sostenerne il benessere occorrerà aver costruito un'economia ancora più forte di quella attuale, ma soprattutto più
solidale. Vuol dire che, per affermarsi come modello globale, la transizione non potrà semplicemente risultare vincente in Europa, ma dovrà garantire un trade-off
tra chi oggi ha le leve dello sviluppo e chi non ha ancora accesso a beni, quali acqua ed energia. Non si tratta dunque di ridurre le attività economiche, ma di
incrementare gli investimenti per la transizione, aumentando l'efficienza e il riutilizzo ed eliminando l'inquinamento, fino ad arrivare a ristabilire un equilibrio
vitale.
Non meno complessa è la sfida digitale destinata a condurre l'industria verso nuovi paradigmi di organizzazione del lavoro, di tecnologie e di competenze.
L'intelligenza artificiale sta trasformando le mansioni. Le analisi dei dati del mercato del lavoro segnalano che la domanda assoluta e relativa di competenze
riguardanti PIA è cresciuta in tutti i settori industriali e gruppi occupazionali, e ora esplode nel lavoro "creativo". Gli sviluppi degli algoritmi e della
intelligenza artificiale e delle loro applicazioni sono poderosi. Ci sono opportunità e rischi. Per esaltare le prime e contrastare i secondi è urgente diffondere
competenza e consapevolezza. Per questo bisogna puntare in ogni contratto di lavoro (a prescindere dalla sua durata) sul diritto soggettivo alla formazione.
Vuol dire accompagnare la transizione per non subirla. Un impegno che le istituzioni pubbliche devono vivere insieme a tutte le rappresentanze del lavoro e
della società, in una stagione di trasformazione e di rilancio. Occorrerà aggiornare e ridisegnare le conquiste novecentesche in tema di welfare, lavoro, salari,
distribuzione dei guadagni di produttività, partecipazione, democrazia economica, formazione, investimenti in capitale umano, inclusione, conflitti distributivi,
tassazione del capitale, del lavoro, dell'ambiente, delle innovazioni, della proprietà intellettuale... e tanto altro ancora.
Il dato positivo è che, nelle democrazie contemporanee, si registra oggi una forte domanda di ripoliticizzazione, di nuova politica che deve essere adeguatamente
coltivata. Correggere le asimmetrie e le diseguaglianze, guidare le opportunità della tecnica, governare l'interdipendenza dei processi economici e civili richiedono
una nuova economia sociale di mercato, la sola capace di attivare insieme le energie delle libertà individuali e le garanzie delle solidarietà collettive, condivise
in uno spirito sussidiario tra pubblico e privato, governi e cittadini, istituzioni e corpi intermedi.
Ovviamente qui l'essenza della questione è intendersi su cosa sono davvero i corpi intermedi e quali siano gli ambiti di azione della rappresentanza di interessi.
Ne ha parlato recentemente, proprio su Il Foglio, un autorevole studioso delle istituzioni come Sabino Cassese, sottolineando le ragioni della crescita del fatturato
delle società di lobbying: "La politica non basta, sostiene l'Italia delle corporazioni" nel tentativo di spiegare le ragioni per cui gli interessi organizzati vogliono
e debbono far sentire il loro peso; e però tutto questo "è rischioso, replica il politico" pensando agli "interessi deboli e diffusi", a quegli "interessi che non
riescono a organizzarsi e a farsi sentire".
Su un tema così complesso - e da troppo tempo trascurato, al punto che è finito ai margini del dibattito pubblico -possiamo certamente convenire con Cassese che proprio
a causa della debolezza della politica avanza l'Italia delle società di lobbying e delle corporazioni. Questo, tuttavia, a condizione di intenderci bene sul concetto di
"politica", che penso sia utile sviluppare nella accezione "arendtiana" del termine, e cioè non limitandola al solo spazio ristretto della azione dei partiti politici,
ma estendendola a tutte quelle istituzioni e formazioni sociali che sono contemplate dalla nostra Costituzione perché capaci (almeno in termini potenziali) di rendere
vivo e dinamico il rapporto tra cittadino e Stato. È in questo spazio di azione pubblico che è possibile e anzi doveroso ripensare e valorizzare le espressioni genuine
e più radicate dei corpi intermedi e della rappresentanza di interessi che non sono e tanto meno possono degenerare nella difesa di rendite di posizione o di interessi
egoistici, pena il tradimento della loro funzione. Come è altresì vero che non mancano, a partire dalla nostra Carta costituzionale, preziose sedi istituzionali chiamate
al non facile compito di canalizzare tutti gli interessi in gioco, così da facilitare quella sintesi "politica" tra dato economico e istanze sociali che è necessaria per
guidare le transizioni in atto e uscire così da una crisi che da troppo tempo sta penalizzando il nostro Paese. Solo così potremo valorizzare gli aspetti più nobili della
vera mediazione politica e con essa l'impegno delle tante persone di buona volontà che ancora si spendono con generosità e passione per il bene comune.